Jihad, un termine solo con tanti significati al proprio interno. Per gli occidentali la parola è stata interpretata prevalentemente come guerra santa contro gli infedeli nel tentativo di affermare la diffusione dell’Islam tramite le armi. In realtà il suo significato principale dovrebbe essere più aulico: la lotta interiore spirituale per raggiungere la perfetta fede fino alla guerra santa. Dal punto di vista letterale il termine si può tradurre in italiano con la parola “sforzo”, come quello individuale da compiere per migliorare sé stesso. Nella dottrina islamica la jihad viene associata sia al lavoro di studio e comprensione dei testi sacri o del diritto che alla guerra condotta sposando la causa di Dio per allargare i confini religiosi anche oltre il proprio territorio e i confini musulmani. In linea generale quindi jihad è uno sforzo compiuto per raggiungere un obiettivo.
Un conto è il senso etimologico del termine, un altro l’evoluzione che poi ha avuto all’interno della società. Nel tempo la jihad si è tramutato in un vero e proprio sistema di pensiero e azione che possiamo definire jihadismo. Già nel corso dei primi secoli di espansione islamica, i combattenti per conto della jihad venivano chiamati moudjahidin come ad esempio i soldati afgani ma non solo. Questa ideologia del combattimento affonda le proprie radici in epoca medievale con le crociate in Medio Oriente risalenti ai secoli XI-XIII e l’invasione dei mongoli datate nei secoli XIII-XIV. Su questi due avvenimenti ha fatto leva la propaganda jihadiste per sostenere le successive campagne militari. Dietro questa dottrina ci sono sostanzialmente tre punti con finalità politiche: rinforzare la coesione della comunità, distogliere l’attenzione dai problemi interni e respingere efficacemente una minaccia esterna. Il problema c’è stato in epoca contemporanea con tanti piccoli gruppi che sia autodefiniscono jihadisti ma che nascono con obiettivi diversi creando una spaccatura all’interno del movimento.
In un contesto dai contorni geografici sempre meno definiti e definibili, l’espansione globale del jihadismo è arrivata anche in Africa tramutando il continente in uno dei punti cardine del movimento. Basta vedere ciò che accade in Mali o Burkina Faso per conto degli esponenti di Al Qaeda che hanno utilizzato i territori come piattaforme logistiche per espandersi anche altrove (Togo, Benin, Costa d’Avorio). In queste aree sono attivi anche gruppi legati allo Stato islamico, come quelli del Grande Sahara o delle province dell’Africa occidentale. Inoltre, la presenza delle forze dello Stato Islamico in paesi come il Mozambico o la Repubblica Democratica del Congo è sempre più importante.
L’Islam conta circa 120 milioni di credenti in un territorio che si estende da un capo all’altro del continente africano, dal Senegal alla Somalia. Questa diffusione è il risultato del processo storico del movimento religioso in seguito alla diffusione dei commercianti arabi, berberi e persiani dall’inizio del IX secolo. L’islamizzazione dell’Africa sub-sahariana, che inizialmente coinvolse prevalentemente le autorità locali tradizionali e solo in alcuni casi completa, iniziò nei secoli successivi, portando alla formazione della letteratura musulmana africana e all’introduzione del jihad (Jihad) da parte dei talebani africani (studenti di il Corano).
L’Africa occidentale, soprattutto in paesi come il Senegal, la Nigeria e il Sudan, è anche sede della diffusione del sufismo, movimento mistico ascetico in netto contrasto con le dimensioni giuridiche e teologico-politiche che dominano l’attuale quadro islamico. Più che al potere di attrazione del jihadismo, l’estensione geografica è dovuta in gran parte alla debolezza del territorio e all’assenza di strutture statali adeguate. Il consenso viene ottenuto attraverso l’esercizio del terrore e della violenza anche se non controllano direttamente come invece accade in Medio Oriente
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