Molto spesso ci si riesce appena ad avvicinare alla letteratura Russa quasi per caso, nei lunghi pomeriggi di studio delle antologie e dei manuali delle superiori.
Ma è necessario indossare gli occhiali della storia per poter comprendere pienamente il perché di tanto fermento intellettuale, politico, e il carattere fortemente drammatico che si cela dietro a opere quali “Il maestro e Margherita” di Michail Bulgarov, “Le notti bianche” di Fëdor Dostoevskij o “La confessione” di Lev Tolstoj.
A testimonianza di quanto la letteratura Russa sia ricca, consolidata e significativa forse non tutti sanno che il paese ha dato i natali a ben cinque vincitori di premi Nobel per la letteratura: Ivàn Bùnin nel 1933, Boris Pasternak nel 1958, Mikhail Sholokhov nel 1965, Aleksandr Solzhenitsyn nel 1970 e Joseph Brodsky nel 1987.
Ma dov’è Lev Tolstoj?
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Sebbene fosse tra i candidati favoriti per la vittoria del prestigioso titolo nel 1901, fu il poeta Sully Prudhomme a riceverlo. Incredibile ma vero: l’autore di Guerra e Pace, Anna Karenina, La confessione e La morte di Ivan Il’ic non ha mai vinto il Nobel.
Eppure il suo è uno di quei nomi impressi a fuoco nelle menti di mezzo mondo.
Nato poco lontano da Mosca nel 1828 in una famiglia piuttosto aristocratica, Lev fa conoscenza fin dalla prima infanzia con il dolore: rimasto orfano della mamma ad appena due anni, perde anche il papà intorno ai sette. È così che uno dei più grandi autori della letteratura russa viene cresciuto da precettori e zii sulle orme di una rigida educazione religiosa.
Dotato di una sensibilità fuori dalla norma, il celebre autore russo in tutte le sue opere manifesta vicinanze e comprensione verso i più umili e gli oppressi provando forte empatia proprio per le condizioni degli ultimi tra gli ultimi.
La scrittura, elemento salvifico di fronte alla sofferenza del mondo
Si avvicina alla letteratura in giovane età, quando, scosso dalla partecipazione alla guerra del Caucaso prima e della Crimea poi, sente l’esigenza di mettere nero su bianco le sue emozioni. Il senso di irrequietezza dovuto all’impotenza provata di fronte alle violenze della guerra, la paura di morire, il sentimento di ingiustizia perpetrata: tutti confluiscono in una serie di racconti brevi in cui l’autore manifesta tutta la sua avversione per la guerra mediante un quadro del fronte, dai tratti estremamente lucidi e talvolta crudissimi.
Questi elementi saranno il terreno su cui si svilupperà una grande crisi interiore dell’autore intorno agli anni Ottanta. Si tratta di una profonda crisi che spinge Tolstoj dapprima ad avvicinarsi molto alla chiesa ortodossa russa per poi prenderne le distanze e abbracciare un cristianesimo anarchico che lo porterà addirittura alla scomunica.
Suoi cavalli di battaglia diventeranno la ferma opposizione a qualsiasi conflitto internazionale, la privazione dei beni individuali preferendo la comunione dei beni e un ritrovato legame saldo con la natura e gli animali al punto di privarsi della carne.
Sono questi gli anni di opere come Resurrezione e di La confessione.
Iniziata a circolare nel 1892, La Confessione viene però sequestrata per il suo contenuto blasfemo.
Si tratta di un’opera brevissima ma dal contenuto davvero interessante che permette di sancire una netta linea tra un Tolstoj del prima e uno del dopo.
La storia non è altro che la versione autobiografica della crisi esistenziale di mezza età che l’autore attraversa in prima persona: “La mia domanda, quella che a cinquant’anni mi tentava al suicidio, era la più semplice che ci possa essere, […] quella che esige una risposta, pena l’impossibilità di vivere: perché vivere, perché desiderare, perché fare qualcosa? La mia vita ha un qualche senso che non verrà distrutto dalla morte che mi attende ineluttabile”.
Come nei primi racconti giovanili ciò che colpisce è la lucidità quasi cinica con cui Tolstoj analizza ed espone la sua personale tragedia spirituale. Forse, però, il tratto ancora più distintivo dell’opera è la forte vena filosofica che permea ogni parola, riflessione, pensiero.
L’autore si interroga sul senso della vita, su quanto la sfarzosità e l’ostentazione della Chiesa ortodossa si sposino male con la ricerca della spiritualità: dov’è la fede, qual è il senso della vita, dov’è Dio?
Tenta, quindi, di ricorrere alla filosofia – numerosi sono i rimandi a Schopenhauer, Kant, Socrate – ma ne questi ne l’adesione incondizionata alla fede sono la soluzione. Arriva anche a delineare diverse vie: quella dell’ignoranza, del piacere, della forza e della debolezza; ma neppure tra queste trova quella salvifica: sono solo vicoli ciechi.
Dove cercare allora il vero senso della vita?
È qui che torna, allora, una delle tematiche tanto care a Tolstoj: gli umili, i poveri, i reietti, gli ultimi.
Si trova, forse, nella loro resilienza, nella loro capacità di sopportare il male, la sofferenza e le ingiustizie il senso dell’esistenza?
È, però, un popolo altamente idealizzato quello su cui Tolstoj riversa tutta la sua fiducia, che vien da chiedersi se esista davvero. Ecco perché anche lui sembra essere consapevole che ci sia una verità che gli sfugge, una chiave che manca, una risposta sbagliata.
E se fosse proprio nell’incessante ricerca del senso della vita, della fede, di Dio?
Se fosse nella ricerca il vero senso e il raggiungimento di una fede autentica?
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