Impossibile proseguire senza un ipotetico piano di pace da dare in pasto all’opinione pubblica. Ma è veramente possibile?
Sinora gli Stati Uniti non hanno mai presentato alcuna proposta alla Russia per il cessate il fuoco in Ucraina. Aprire la prospettiva di una trattativa per la pace sarebbe stato troppo pericoloso. Si sarebbero potute accentuare le divergenze all’interno del governo di Kiev. Zelensky, lo si ricordi, è stato eletto nel 2019 e da allora i collaboratori del suo staff se ne sono andati quasi tutti. Molti ministri sono cambiati: l’ultima raffica di dimissioni risale al gennaio scorso, a causa delle accuse di corruzione. Addio dunque al vice ministro della Difesa, al vice procuratore generale e al vice capo dell’ufficio di presidenza.
In Ucraina la distribuzione del consenso è frammentaria da anni e movimentata da parecchi outsider improvvisati. Al primo turno delle presidenziali del ’19 i candidati erano una ventina. Volodimir Zelensky non aveva la maggioranza e come presidente, per la Costituzione, non poteva promulgare leggi senza il via libera del Parlamento. Così ha ottenuto elezioni anticipate e il 44% dei voti, molto ma non la maggioranza assoluta, con quattro altri partiti però tra il 5 e il 12%. Lo Stato è sorto solo nel ’91 e la classe dirigente non può fondarsi su una consolidata tradizione.
Oggi poi la tensione è tale, che una maggioranza necessariamente variegata non sopporterebbe un accordo preso direttamente tra Usa e Russia, passando sopra Kiev. A maggior ragione dopo l’eccezionale protagonismo mediatico di Zelensky, che ha parlato a ogni parlamento occidentale da commander in chief. Il premier a Kiev è dal 2020 Denys Shmyhal, che, in linea col presidente in tuta militare, ha appena chiesto ai partner 6,5 miliardi di dollari per le necessità urgenti della popolazione. Per tutelare l’unità di Kiev, la Casa Bianca insiste sul principio Nothing about Ukraine, without Ukraine. Ogni decisione sull’Ucraina va presa assieme a Kiev, una capitale terrorizzata e smaniosa di sicurezza. Quindi, tutto è più difficile per il segretario di Stato Antony Blinken.
Per un accordo preliminare alla pace occorre inoltre il consenso di Mosca. Di fronte a qualunque concessione si proponga a Mosca, Kiev pretenderà una contropartita. Il risultato sarà un’Ucraina «paese porcospino» sul modello di Israele e Taiwan. Un prezzo alto da pagare per l’Occidente, dato che l’invio di armi, sia pure a scopo precauzionale, continuerà intensamente. La conseguenza è che l’Occidente, invece di disgregarsi come si credeva al Cremlino, si dovrà ancor più compattare, come un impero senza un centro. Eppure, completamente sotto controllo.
La prima ipotesi è che la Russia ritiri le truppe dal Donbass. Lo scopo sarebbe restituire a Kiev gli stessi confini orientali del 1991, anno di nascita dello Stato indipendente. Le presunte repubbliche autonome di Donetsk e Lugansk, già benedette dal Cremlino, sarebbero cancellate. Sarebbe un grave smacco per la Russia, che forse accetterebbe se Kiev rinunciasse alla Crimea. Ma non basterà ancora.
Gli Stati Uniti lavorano anche su possibili equilibri provvisori, che durino solo qualche anno. In fondo, vantano l’esperienza spinosissima dei rapporti fra Israele, Palestina e mondo arabo. E della rete di relazioni attorno a Taiwan, la cosiddetta nuova silicon valley. L’impero americano, tecnologico, massmediatico e assetato di energia e terre rare com’è, poggia su pilastri esterni che non possono venir meno, dato che l’autarchia è impossibile. E la fase travolgente degli anni ’90 è finita, grazie alla crescita della Cina.
A cascata, l’ordine mondiale si deve riequilibrare. Detto questo, le altre potenze collaborano? Non molto. Per il premier indiano Narendra Mobi, la guerra è faccenda soprattutto europea, mentre offre aiuto nel Pacifico. La Cina, lo ha ribadito Xi Jimping, sostiene la Russia di Putin, che resta il punto di riferimento dei Paesi Brics, ossia Sudrafica e Brasile, oltre a Pechino, Mosca e India. Sono i Paesi che l’anno scorso hanno ipotizzato una valuta comune, per sé e altri Paesi che potrebbero essere colpiti da sanzioni come la Russia.
Allora Kiev, per accontentare Mosca, non dovrebbe entrare nella Nato. Si comprende che una richiesta simile equivalga a un sacrificio doloroso per l’Ucraina. Quale Stato rinuncerebbe a una condizione esistenziale come la sicurezza percepita, dopo una guerra? Kiev ha gli incubi. Per dirne due, dell’abbattimento di un aereo nel cielo dell’Iran l’8 gennaio 2020 e dell’addensamento di truppe russe al confine nel gennaio 2022. Nessuno allora ha evitato una guerra imminente: e in futuro? Kiev vuol essere per quanto possibile autosufficiente.
Il rischio è che l’Ucraina diventi ingovernabile, e che pullulino ovunque gli spettri di chi lavora per Mosca o per Washington a spese del popolo. Il vantaggio della diplomazia americana, per chiamarlo così, è l’esperienza delle crisi. Da non risolvere facilmente, con governi fantoccio o elezioni truccate. Kiev d’altro canto ha da sempre una cultura russa. Come sarà possibile mantenere un’ambiguità così ricca di creatività, senza smarrirsi nel caos? Può l’Ucraina rinunciare alla propria storia culturale, in cambio di una fragile storia artificiosa? Non basterà una narrazione massmediatica.
La Russia, da parte propria, dovrà ritrovare un equilibrio oltre i conflitti interni, per reggere l’indipendenza ucraina, tanto più se armata. Proprio ora che a Mosca il potere parla il linguaggio militare, e da 25 anni. Gli oligarchi militari, dalla Cecenia alla Wagner, sono i più popolari dopo Vladimir Putin. La pace, ammesso che sia possibile, richiederà uno sforzo culturale imponente, con grande impegno della propaganda, e sacrifici economici enormi.
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