L’approccio al denaro non è mai così semplice e scontato come a prima vista potrebbe apparire. Se è vero che vanno curate le entrate, magari massimizzandole, è altrettanto vero che conta anche il saperle gestire. Uno dei tanti dilemmi passa per i rapporti bancari. Per esempio, quanti conti bancari servirebbero per gestire bene le finanze domestiche?
Molto spesso si accentra tutto in un unico prodotto sia per contenerne i costi che per non complicarsi la vita più di tanto. Tuttavia, quando i flussi in entrata e in uscita sono importanti, o comunque li si vuole gestire al meglio, allora il discorso cambia e diventa relativamente più strutturato.
Un primo c/c, che potremmo definire quello principale, dovrebbe accentrare, e servire a gestire, due precisi flussi finanziari. Uno, tutti quelli in entrata, qualunque ne sia la natura. Quindi redditi da lavoro autonomo e/o alle dipendenze, redditi da rendite, pensioni, etc. In tal modo si condividerebbe con i terzi un solo IBAN, semplificandone assai i rapporti.
Il secondo attiene alla gestione delle spese fisse, cioè tutte quelle di cui siamo già sicuri di dover pagare nel corso del mese. La loro affluenza al conto principale dovrebbe garantire, almeno in linea teorica, la certezza di onorarle sempre grazie alla presenza di risorse sufficienti.
Un secondo c/c, invece, si renderebbe utile per gestire tutte le spese variabili. Spesso è nelle pieghe di tali voci che si nascondono le uscite più impensabili o irrazionali o del tutto slegate alle esigenze proprie o familiari. Per cui per tenerle a bada non c’è niente di meglio che gestirle secondo dei massimali da non oltrepassare. Ma come fare?
Per gli esperti basterebbe aprire un secondo c/c dotato di solo Bancomat (senza carta di credito) e magari a canone zero. Esso sarebbe alimentato dai trasferimenti che ogni mese proverrebbero dal conto-madre. In tal modo ci si da una sorta di importo-soglia da non travalicare nel gestire questa famiglia di spesa.
Infine arriviamo al terzo conto, legato ai primi ma distinto da essi: è il conto deposito (CD). Mentre i primi due assolvono alle funzioni di mezzi di pagamento, a quest’ultimo sarebbe demandata la funzione di strumento di investimento. I CD non hanno costi di gestione, godono della stessa tutela FITD prevista sui c/c e al momento offrono ancora dei buoni tassi di interesse.
Tuttavia, il suo uso andrebbe limitato nel tempo e negli importi ivi destinati. Spieghiamoci meglio.
Da un lato, il deposito non dovrebbe eccedere lo spazio del breve-medio termine, cioè dovrebbe andare dai pochi mesi ai pochi anni. Dall’altro dovrebbe servire a gestire i capitali relativamente modesti in rapporto alle proprie disponibilità mobiliari. Per ottenere i migliori rendimenti sul lungo termine, infatti, vi sono altre asset class che si lasciano preferire al CD.
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