Spendere 250 mila euro per scendere a 3800 metri di profondità, nel mare più nero. E morire. Così ad un relitto se ne aggiungerà un altro.
È uno strano intreccio di storie macabre ed assurde, questa cronaca del sommergibile in visita al relitto del Titanic. improvvisamente scomparso e dato per disperso: una barchetta di carta abbandonata all’ignoto.
Le premesse erano già in odore di follia: un business milionario cucito su misura per persone ricche come Creso, moneta più o moneta meno, annoiate abbastanza per decidersi ad entrare nella tasca stretta di un sommergibile tascabile, bianco come una caramella alla menta, di tecnologia incerta, dubbia affidabilità e destino segnato senza aver bisogno di una Cassandra.
È una storia maledettamente rapida come l’ossigeno ad esaurirsi. Un conto alla rovescia che corre verso il punto zero dove le speranze verranno cancellate da una realtà che vedi già nitida, perché la nebbia della speranza è quella, lieve e sottile, che si solleva talvolta sul mare. Dura poco. È la nebbia di un attimo che lascia posto al sole. L’offuscamento che ci impedisce di capire dura ancora meno e viene spazzato via dal nero dell’oceano, un’onda sottomarina che avrà trattato quel piccolo sommergibile come un giocattolo nella vasca da bagno. Ma qui c’è un mare senza fine: è l’Oceano Atlantico dove nell’aprile del 1912, di notte, affondò il Titanic, urtando contro il bianco di un iceberg. Un’immensità bianca che il nero della notte riuscì a coprire come fosse nulla, fino a quando non fu troppo tardi.
Non c’è neanche da chiedersi con quanta facilità ora la notte del mare avrà coperto il sommergibile bianco, il minuscolo iceberg follemente chiamato Titan con a bordo 5 milionari che possono contare su una manciata di ore per non morire come persone qualsiasi, peggio di persone qualsiasi. Molto peggio, dopo aver pagato una fortuna, 250 mila dollari a testa, per curiosare tra i resti di una tragedia che chiede solo di riposare nell’oblio. E invece no: il luogo attrae, e qualcuno fiuta l’affare. Fa credere a chi ha fin troppi soldi da spendere che scendere giù, in basso, sia una faccenda da eroi, qualcosa da raccontare durante le cene con commensali pari tuoi o più importanti, che dovranno tacere, finalmente. Dovranno tacere e darti attenzione, quando racconterai dei minuscolo Titan, dove eri tu, e del grande Titanic che sei andato a vedere. La forchetta si ferma ad un attimo dalla bocca e ti guardano.
Sì, la ricchezza crea debolezze, in noi e negli altri. Quella degli altri osserva la nostra fragilità, la nostra opulenza, e cerca sollievo. Ecco allora che qualcuno convince i ricchi a spendere una fortuna ed a sfidarla, la fortuna. Eccoli scendere e frugare tra i resti del relitto, fino a quando il Destino non ne ha abbastanza di loro e prepara un’uscita in grande stile, sconvolgente come quella che oltre 100 anni fa toccò in sorte a chi, a differenza di loro, non se l’era andata a cercare. Ma le persone scomparse quella notte d’aprile erano saliti sulla nave perché la vedevano possente, placida e inaffondabile. Le persone scomparse oggi sono salite sul piccolo sottomarino, sei metri per due o poco più, sapendolo fragile e mortale quanto le anime che ospitava a fatica.
Un modo strano e straordinariamente costoso di rischiarsela per vedere una maestosa ferraglia a migliaia di metri in profondità coperta da alghe e buio pesto, nient’altro: la stessa sensazione che potresti riscontrare nella contemplazione di una grande fabbrica abbandonata, dove la frenesia industriale ha lasciato spazio al tempo. Ecco che ci appare dal nulla un colosso in disfacimento, un ninnolo dell’incuria a ricordarci come tutto, anche l’ambizione più sfrenata, sia nulla dinanzi all’inevitabile. E inevitabili sono il tempo ed il mare, che hanno distrutto il Titanic. Osservano il piccolo sommergibile e giocano al gatto con il topo. Ma se vai a vedere un’area industriale dismessa, chi ti presta ascolto? Se pronunci la parola Titanic, e dici che eri lì allora sì, puoi continuare a parlare.
Ricchezza e curiosità non sono sempre buone compagne di viaggio e finiscono per portarti nell’abisso. Ti portano nel buio più pesto, mano nella mano: è uno degli aspetti più folli della faccenda. Perché se il relitto del Titanic s’illuminasse, d’improvviso, nel profondo di quei 3800 metri come un monumento, quando inserisci la monetina, se si mostrasse come una colossale Bette Davies con rughe abissali, una diva del profondo che ci osserva, incredula di essere stata disturbata per un instante allora sì, forse sarebbe valsa la pena andare in quel buio folle, reciderle il fianco per trovare la soluzione di un qualche mistero nell’intrico di linee contorte e disperazione abissale.
Ma il relitto enorme resta nel buio: 269 metri di ruggine depredati dal turismo dell’ombra che ha portato in superficie gli oggetti più diversi: dai piatti agli orologi da tasca fermi pochi minuti dopo l’inabissamento per lasciare sul fondo i resti, imponenti e inutili, e che il piccolo sommergibile dei turisti può illuminare e contemplare debolmente. E ora si cercano le soluzioni, il coltello che tagli il nodo gordiano. Ma è come pescare tutti i pesci del mare per cercare nelle interiora la moneta che illuminerà l’oceano e permetterà di dire “sono lì“.
Non puoi dirlo, tutti lo sanno e non puoi dire neanche questo, per ora. Ma comprendi che tutto volge al termine quando la parola salvataggio inizia a mancare e ti accorgi che l’hanno messa alla porta, questa ipotesi, come un ospite fuori luogo nell’incontro dove la realtà ha fatto gli onori del padrone di casa. Il calcolo e la probabilità hanno fatto i resto. Ed ecco che si parla del piccolo sottomarino portato via dalle correnti, o intrappolato tentando qualche pazza manovra tra i resti del Titanic, di un incendio a bordo, di una struttura che collassa perchè non può tenere a freno l’insostenibile pressione dell’acqua. È accaduta una di queste cose, certo. E quale sia stata sappiamo che non potrà più salire in superficie da solo, il piccolo sommergibile.
C’è un passaggio degno del Teatro dell’Assurdo nella cronaca che corre a raccontare quello che sta accadendo e tenta di trasformarla in una narrazione che puoi mettere a verbale senza doverti fermare ogni istante. Ma la logica latita e si nasconde bene, quando senti dire che le ricerche del piccolo Titan devono considerare un’area due volte più grande dello stato americano del Connecticut, 26 mila chilometri. E l’ampiezza non è tutto: il piccolo puntino bianco potrebbe trovarsi ovunque, in una profondità che scende fino a 2,5 miglia: chi cerca il piccolo sommergibile ha davanti una distesa d’acqua immensa e una profondità di 4mila metri, dalla superficie verso l’abisso. Dalla sua ha solo un pugno d’ore. E t’immagini anche Dio, davanti a quella distesa d’acqua che dice “No, non posso salvarli“.
Ma è insensato anche il metodo, non solo lo scopo. Che questa sia una storia scritta dalla stupidità lo si comprende quando vengono a mancare i contatti con il sottomarino giocattolo. Si sono perse le comunicazioni, dicono, e immagini che vadano a cercare i dispersi lì dove è stato rilevato l’ultimo cenno. E invece no, troppo semplice. C’è un segnale che proviene dal piccolo sommergibile, ma se scompare le informazioni che hai avuto fino ad un istante prima non servono a nulla: potrebbe essere ovunque, il sommergibile, come un piccolo narvalo nel cielo, Hänsel e Gretel dispersi in un abisso e una traccia di molliche di pane, e sassolini, per trovarli. In quel momento il mondo accende il riflettore sulla follia, quella vera, più grande del relitto, lì sotto.
Perché ci dicono che Titan procedeva da solo, senza neanche un’imbarcazione a fargli da guardaspalle, in superficie: era solito puntare verso il grande relitto e via: una spazio strettissimo, cibo e acqua razionati, per sfidarne uno immenso. Se qualcosa va male nessuno può davvero venirti a riprendere, lì sotto. Toccare quel fondo è come essere sulla Luna e guardare la Terra, azzurra e lontana e sperare che risponda ad un tuo cenno. E ti domandi a cosa serve avere scorte se il piano B di un’avventura come questa è identico al piano A: la fine. Una follia che ne custodisce un’altra. Anche l’ossigeno sarebbe da razionare. Ma decide lui quando finire. Ed hai freddo e sei nei buio.
Dicono che non riesci neanche a vedere la tua mano, lì sotto, e immagini cosa possano aver pensato i cinque uomini baciati dalla fortuna fino a pochi giorni fa, quando hanno deciso d’imbarcarsi veramente. Forse se ne sono andati per freddo, prima ancora che per mancanza d’aria, dicono. Provi a pensare cosa si provi, quando tutto è buio l’intorno e avevi paura da bambino ad entrare nella stanza dei nonni e non trovavi subito l’interruttore. Ma era un attimo. Provi a pensare cosa provano ed hanno provato quei 5 là sotto, ma è inutile. Meglio così, perché capirlo non è una consapevolezza che avresti voluto avere, se hai la fortuna di uscire da quell’attimo e guardare indietro.
Da quell’attimo loro non potranno uscire, lo sappiamo. I miracoli sono più rari dei disastri, sembra dire quell’enorme lascito del tempo, a 3800 metri di profondità. Non è bastato. L’opulenta leggerezza di una piccola traccia bianca che ha trasformato la consapevolezza del benessere in una spaventosa sopravvalutazione delle proprie possibilità si è accorta quanto è lieve tutta la ricchezza del mondo quando ha su di sé tutto il peso dell’oceano. Ma forse non hanno neanche avuto il tempo di pensare, né di avere paura.
Quattro giorni di ricerche hanno avuto un solo attimo diverso dagli altri, quando si è sentito qualcosa, provenire dal fondo. È emerso un dettaglio ed è sembrata una speranza: erano colpi ad intervalli regolari, si è detto, captati proprio nella zona in cui sarebbero state concentrate le ricerche. È stato facile immaginare i cinque, che avvertono qualcosa intorno a loro e riprendono il filo di quel segnale interrotto giorni prima, battendo sulle pareti ricurve di quella capsula che non puoi aprire dall’interno. Devi attendere qualcuno che da fuori lasci entrare la luce. E allora è sembrato di vederli e anche di sentirli, con le poche forze e l’ossigeno che manca, tentare l’impossibile.
Ma l‘Oceano Atlantico non è una valanga di neve, né un edificio che collassa i propri detriti e lascia aperte mille fessure per l’aria ed i suoni. Lì è un buio denso che si fonde con l’acqua, una pozione alchemica che ti separa dal mondo in un’enorme bolla dove i suoni confondono e non puoi percepire i passi di chi ti viene a salvare. È un altro mondo, anche in questo. Il rumore sottomarino percepito non proveniva da loro, si è detto qualche ora dopo.
È stato un epitaffio, il momento in cui si è capito che tutto ha una fine, anche le persone che vorremmo salvare, per quanto folli siano state. Si attende un attimo e dopo si pensa a loro, ancora. Vengono in mente i disperati in quella notte d’aprile del 1912. E si immagina che qualcuno finalmente apra quel piccolo sommergibile bianco per farli uscire tutti, vivi. Davanti a loro non c’è più il buio opprimente dell’oceano ma l’aria lieve di una notte di primavera. E le stelle.
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