Non possiamo dire di essere stati presi alla sprovvista. Forse l’unico al esserlo sarà stato lui, Silvio, se ha avuto il tempo di capire.
Un leggendario, quasi onirico attaccamento alla vita, aveva Silvio, congiunto ad un’attitudine al profitto così intensa da non lasciar spazi a qualcosa che andasse oltre.
La fede calvinista sembrava essere stata l’unica possibile per lui: produrre equivaleva a lodare Dio. Arricchirsi era prova del favore e della ricompensa divini. Tutto il resto, dettagli. A questo servivano le segretarie, i management e gli autisti che aprivano le portiere. La storia della cruna dell’ago e del cammello, lui non la credeva davvero. E comunque, non riguardava lui. E’ andato via, quasi di nascosto, se si considera la visibilità del personaggio. Quasi dalla porta del retro dell’ennesimo ricovero. Le parole che accompagnavano i piccoli viaggi dentro i reparti erano sempre le stesse. E alle fine si sono trasformate, quelle parole, in passi che accompagnano il feretro.
E’ stato talmente attaccato alla vita, Silvio Berlusconi, che la sua scomparsa non sembra reale. E, quasi per contrappasso, per un’assurda compensazione tra la realtà e lo studio delle probabilità, si finisce per credere che non sia mai esistito. Silvio come un ostinato nonsense, uno scherzo della percezione apparso nella vita come in un sogno, per dirci che niente è reale – non lo sono quei sette miliardi di patrimonio personale che non gli hanno assicurato un giorno di vita in più. E certo avrebbe volentieri accettato di trattare su questo tavolo, Silvio, se solo avesse potuto. La vita è un sogno dove niente è reale: da Pedro Calderón de la Barca fino al ragazzo nato al Maternity Hospital di Oxford Street, a Liverpool, e ucciso quando il Nostro, di soldi ne aveva fatti abbastanza, ma non era sazio. E andava avanti per ricordarci che è tutto un sogno, lui compreso. Piccolo come il francese nato in Corsica ma italiano, lombardo fino alle ossa. Capace di faticare come uno schiavo alla trireme, e a rotolarsi nel lusso come una foca un attimo dopo, perché riteneva di esserselo meritato, che diamine.
Vedevi tutto questo, quando lo osservavi: il Trimalcione del Satyricon, folle romanzo che ne reclama ancora oggi l’assenza, e Silvio sembra un capitolo perduto, gettato avanti nei secoli. Uno zio felliniano, con un sorriso da gatto del Cheshir che cerca un’Alice e dopo un’altra, perché repetita iuvant si diceva ai banchetti di Roma antica. Un cantante nelle navi da crociera, un Charles Foster Kane senza neanche il ricordo della slitta da far riaffiorare. E c’era stato quel viso, il folle tentativo di non arrendersi al tempo, un’ostinazione degna di una Norma Desmond in Viale del Tramonto. Ecco, vedevi come nascondere il tempo lo rendesse simile ad un venditore di gramaglie asiatico, piccolo e anonimo, e ti domandavi se non fosse folle davvero, il nostro Silvio.
E ora che è andato ci si rammarica che non esista un suo libro di memorie, un diario di Sant’Elena dove avrebbe potuto, rinchiuso, uscire da se stesso e spiegarci chi fosse veramente. Tempo per scrivere ha rischiato di averne in abbondanza. Non si può fare a meno di pensarlo quando si dedica qualche attimo all’inventario delle sue disavventure processuali. Se ne contano 36, di queste 11 assoluzioni, 10 procedimenti archiviati, 8 andati in prescrizione e 2 casi di amnistia. Una sola condanna definitiva, perché anche ai fuoriclasse, e ai loro avvocati, capita di sbagliare una partita.
Sì, i legali soprattutto: dovrebbero rimpiangerlo come nessun altro. Costretto in parcelle a firmare assegni come un autore di grido alla presentazione di un libro, Silvio ha fatto la fortuna degli studi legali e delle loro famiglie. Si sentiva un perseguitato politico, destinato alle arance da un destino cinico e baro. Quando Silvio malediva la sorte ed i giudici con parole sgraziate nella stanza accanto c’era chi si accendeva una sigaretta e guardava il soffitto con un pensiero simile ad un ringraziamento, se mai ha creduto in Dio. Era il Master and Commander dello studio Legale con la targa in caratteri Didot tirata a lucido – senza una macchia, la targa – pronto a fare di tutti per evitagli la stanza stretta, il libro di memorie ed il patibolo. E ci sono riusciti, i suoi avvocati. Al resto ha pensato la Legge italiana, e quell’irreale, mostruosa macchina di inefficienza e nefandezze che è la Giustizia.
Perché se il piccolo Silvio gridava e, a dispetto della grandeur, spesso è sembrato scartare il pericolo con un topo, c’è stata un’ossessione nel dargli la caccia che è qualcosa di più di un biasimo: è la Collina del Disonore di questo Paese. E dalla contraddizione, stridente, non se ne esce. Silvio il gangster doveva essere preso e messo nella condizione di non nuocere, a costo di processarlo per frode fiscale, come accadde a Alphonse Gabriel Capone, poche chiacchere. Ci si è andati vicini, con l’unica condanna definitiva che ha subito. Ma è finita con un affidamento in prova ai servizi sociali, tarallucci e vino, ed ecco che il Silvio di sempre tornava, fermato solo dai ricoveri in ospedale.
Ma questo esito, così miserevole, ci parla di un’altra miseria, se Silvio fosse stato davvero il criminale che molti avrebbero voluto fosse. Ci dice che è la Giustizia italiana a meritare il processo, prima e dopo. Perché, comunque la si voglia leggere, la sua storia, 36 processi ed una sola condanna definitiva, sono una proporzione insostenibile, che Silvio fosse stato innocente o colpevole. Sono i numeri di una débâcle, una bancarotta per la quale si dovrebbero portare i libri contabili in Tribunale. Ma nessuno l’ha fatto, neanche lui, e nessuno lo farà. Il fronte processuale ha divaricato una ferita già aperta in un Paese diviso e mai pacificato. La piccolezza di Silvio come leader politico è stata quella di rimanere nell’impasse di una riforma della Giustizia che ha mostrato mille proposti e contraddizioni, ha discettato in latino e strillato come una servetta ma alla fine ha fatto retromarcia con le braghe calate, orribilmente.
Silvio si è fatto bastare la salvezza delle sue terga, e pace se qualcuna delle sue ragazzine non ne apprezzava la malagrazia con cui il tempo sembrava averlo schiaffeggiato, anche li. Bianco e malfermo, come si conveniva al vecchio che era, mentre il viso, tutto lifting, faceva il gioco delle tre carte con i giorni che passano. Le ragazzine vanno e vengono, la Giustizia da incubo resta. Questo esito racconta Silvio più delle sue fortune. E la sensazione che se ne trae è un’indizio di viltà.
E’ riuscito a cambiare lo stato miserevole della Giustizia in Italia con la stessa efficacia di un sogno, Silvio. E per questo si stenta a credere che sia mai esistito. Il figlio di Rosa e Luigi ha trasformato in realtà i propri desideri, quando cantava sulle navi, non quelli degli altri. La sua follia non ha reso i Tribunali meno folli di lui. Se l’è cavata con molti miliardi e qualche graffio. Non male, a conti fatti, se pensiamo che non sono mancate persone che avrebbero voluto appenderlo per i piedi. Ma, alla fine, Silvio ha fatto la fortuna di chi l’ha incontrato nel posto giusto, al momento giusto ed è entrato nelle sue grazie, qualche volta nelle sue aziende. Per gli altri, il Paese è rimasto quello che era, piccole e grandi disgrazie, grandiose mediocrità come quelle di cui Silvio è stato un campione. Il figlio di Carlo e Maria Letizia, rivoltò il suo Paese con un guanto, fece guerre e disastri, ma lasciò almeno un codice, e un diario. Il ragazzo che cantava sulle navi ha lasciato una fortuna in aziende, nessun erede politico, ragazze e ragazzine affrante per il venir meno dell’aiuto mensile. Il bilancio della vita, almeno quella pubblica, potrebbe essere impietoso: tanto rumore per nulla.
Ogni anno ci allontanerà il suo ricordo, come un sogno al mattino. Dispiace questo commiato in punta di piedi, senza una frase, l’ultima, fosse anche una domanda meravigliosamente idiota come capitò a Francisco Franco che, qualche attimo prima di passare a miglior vita, chiese il motivo per cui le persone lo salutassero sotto la sua finestra “Dove vanno?”. Silvio se n’è andato come se non volesse farlo sapere, come se fosse la prima cosa di cui, realmente, si vergognasse. Forse ha tentato il colpo di mano, un dispetto ai giornalisti che avevano pronto, da anni, il pezzo con cui commentare l’addio. Il silenzio è stato il suo voltare le spalle, ai managements, ai boards, alle lobbies che faranno pubblicare un messaggio di commiato, impeccabile, perchè scritto senza fretta, quando ancora Silvio pensava di poter fare progetti.
Aveva ragione Eraclito, tutto passa. Il problema è che la stupidità – la stupidità di pensare solo alla propria ricchezza, per esempio – passa, ma dopo ritorna. Trimalcione presto o tardi, fa rivedere la sua faccia. Diventa ricco e offre banchetti. E non si accorge, non sente se, tra una portata ed un’altra, qualcuno dice: “Abbiamo avuto un gran freddo, il bagno mi ha scaldato a stento. Ah, meno che mosche siamo, loro una certa resistenza ce l’hanno. Ma noi niente più che delle bolle siamo“. Ecco immaginiamo la camera ardente, il silenzio. Neanche una mosca si sente volare. E fuori, là fuori l’Italia di sempre. E’ stato un sogno, sì.
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