E’ accaduto un’altra volta. Ogni volta la notizia fa paura. Perché sappiamo che, per quanto assurdo, potrebbe accadere a noi.
Potrebbe accaderci proprio perché assurdo, e ribadire nella maniera più irreparabile, inchiodare alla nostra evanescenza, la nostra fragilità. Ecco perché la notizia spaventa. Restiamo attoniti e ci fermiamo, come se noi stessi dovessimo ricordare qualcosa, qualcosa d’irrimediabilmente perduto.
E ci sembra di capire quello che vive un padre, una madre che dimenticano il proprio figlio, fatalmente, in un luogo dove lo ritroveranno senza vita, o prossimo a morire. Un luogo che non c’era più nelle loro menti. Chiuso alle loro percezioni, al ricordo.
Ecco, questa volta è toccato ad un padre di 45 anni, un carabiniere. La personificazione di cosa significa essere presenti a sé stessi, in apparenza. Un uomo giovane, il senso della responsabilità cucito addosso come un’abito, uno stile di vita che è stato il motivo per guardarsi presto allo specchio, la mattina: dovere, responsabilità, cura. Un ruolo che definisce le relazioni, i confini da non oltrepassare. Le chiamano Forze dell’Ordine. E ora quell’uomo è nel disordine più profondo, travolto da una forza che non concede appigli o approdi. Provi ad immaginare, e qualcosa riesci a vedere. Immagini quest’uomo che ripercorre le ore in cui ha dimenticato la figlia in auto, avanti e indietro, in quella stanza senza via d’uscita che sono diventati i suoi pensieri, con una disperazione feroce ed incredula.
L’angoscia di un uomo al patibolo della propria colpa, per sempre. Una colpa che non può eludere, non può dimenticare, perché l’irreparabile è compiuto. E ogni mattino è un risveglio, un insopportabile risveglio dove, per un istante, qualcosa in te t’implora di pensare che è stato un cattivo sogno. E dopo giorni, sfinito, speri di non svegliarti, di essere tu liberato, a costo della vita, dall’illusione di un’istante, quella delle prime ore. E’ il momento più infame e letale, più pesante di quello che ti tocca vivere subito dopo. Un muta, calma tempesta che resterà con te ogni giorno. E’ così: gli uomini qualsiasi diventano importanti solo davanti alla propria disgrazia, per accorgersi di essere soli.
La cronaca è scarna dove la disperazione è profonda, sempre. E la cronaca ci racconta, quasi svogliatamente, la solita storia, quella che ci lascia malinconicamente consapevoli della nostra fragilità. L’asilo e l’ufficio sono a pochi passi. C’è quell’abitudine che in un nonnulla diventa routine e cancella il tempo, il susseguirsi di gesti e il loro depositarsi nella nostra coscienza. Gli attimi non diventano più luoghi che si osservano in profondità, ma stanze a tenuta stagna. E, per qualche imperscrutabile ragione, la mente, lasciandosi come cullare da un gesto dopo l’altro, cancella il ricordo dell’evento più prossimo. Non importa quanto sia importante. Tutto era maledettamente importane ma è svanito, in meno di un attimo: il padre arriva alla Città Militare della Cecchignola, a Roma, parcheggia in via dei Fucilieri, davanti all’asilo nido riservato ai dipendenti del Ministero, s’incammina verso il suo ufficio allo Stato Maggiore della Difesa. Un giorno come tanti, ma l’estate è prossima, fa caldo.
Sette ore dopo un militare rompeva uno dei finestrini della Renault Mégane rossa per tentare di salvare la piccola. Poco prima, ormai era pomeriggio, la madre aveva cercato la figlia al nido. Non c’era. Ed il mondo si è capovolto in un attimo. In un attimo la brillante evanescenza diventa un bagliore che uccide. Dopo c’è il buio pesto, e quello rimane. La madre ha un malore, il padre dice qualcosa. Le sue parole sono il referto di come l’assurdo entri nelle nostre vite, si chiuda a chiave, dentro, e ci costringa a descrivere quello che abbiamo fatto con poche frasi che non hanno più un senso. Un padre ha atteso per ore la nascita della figlia durante il travaglio, con in mente solo lei, e pochi mesi dopo affonda nell’oblio più nero e se ne dimentica. Un padre, la premura fatta persona, che diventa in un mattino di fine primavera un padre prodigo, una storia capovolta. Il senso della nostra vita diventa indecifrabile, primordiale. Una pittura rupestre di cui abbiamo perso il linguaggio per descriverla, il senso da attribuire ai graffiti che vediamo sul muro. L’unica cosa che sappiamo è di essere stati chiusi dentro da qualcosa che è accaduto e resta, lì fuori, infinitamente più grande di noi. Possiamo uscire solo per andare al patibolo. Sparire, anche noi. Pensi sarebbe stato meglio non fosse mai accaduto nulla, non aver conosciuto la donna che è diventata madre e ti ha reso padre. La vita stessa era da evitare, se avrebbe portato a questo: una bambina di nome Stella, 14 mesi, che diventa un dono ed una condanna, ogni volta che penserai a lei.
Devi tornare a casa, ci sono gli abiti delle piccola nella bacinella dei panni sporchi lasciati dalla sera prima, il latte in frigo, i giochi. C’è l’auto dei suoi ultimi istanti che devi continuare ad usare, il finestrino da riparare come se non fosse accaduto nulla, il luogo di lavoro, l’asilo, la strada ed il punto in cui l’auto era parcheggiata. E più di ogni altra cosa ci sono risposte che devi a te stesso e alle persone che non fanno domande, ma le fanno senza pronunciarle, e prima tra loro la madre della piccola, inevitabilmente. Non ci sono risposte, perché questi incidenti, e forse proprio loro, definiscono la complessità del nostro vivere. A questo nodo è stretto un pensiero. Non porta a niente e non aiuta, ma c’è: dimenticare un figlio è la metafora di tutto ciò che dimentichiamo.
E non sempre la parte di noi dimenticata, rimossa, è superflua. Viene da credere che, per un beffardo scherzo del destino, i figli vengono dimenticati perché sono la parte più importante, una presenza assoluta che diventa metafisica, al punto da illuderci sia autosufficiente e non richiedere il costante accudimento proprio della fragilità. Ecco, forse qualcosa in noi ci fa credere, per un istante, che il bambino dimenticato sia un essere immortale, per l’importanza sovrastante che ha nella nostra vita. Non c’è una mancanza di cura, non c’è desiderio di abbandono in queste cadute nell’oblio, ma esattamente il contrario: uno sfinimento, un crollo che fa assomigliare i padri e le madri ai bambini che si addormentano alle spalle. Sembravano svegli, i genitori. Dormivano anche loro, sfiniti dalla responsabilità.
E sullo sfondo tutto questo ci sono le carte, certo. C’è l’indagine della Procura di Roma. C’è un padre indagato per abbandono di minore. “Un atto dovuto” un’assurdità piccola piccola dopo l’assurdità della tragedia che ha travolto tutto, tranne la folle burocrazia, che se ne sta lì, non dimentica, e apre fascicoli. Perché non ha figli, da amare e abbandonare. Se ne sta lì e non ha niente di meglio da fare. E intanto i genitori continuano a gridare, e ad avere malori e iniziano a morire, anche loro, dinanzi ad un figlio dimenticato e ormai senza vita. C’è chi tiene una folle contabilità di queste tragedie e ne conta undici in 25 anni. Una follia anche questa: fare l’inventario delle volte in cui gli abiti dei bambini non sono stati sostituiti da abiti di una taglia più grande per la dimenticanza di uno dei genitori. Significa dare un’imprinting numerico a qualcosa che travalica ogni matematica e possibilità di calcolo.
Perché i bambini dimenticati di cui sappiamo qualcosa, in auto, nell’acqua di una piscina che sa di cloro o nel sale di un mare calmo e cupo sono un numero che non possiamo calcolare, né dire. Ed arrivano a noi, appaiono visibili e reclamano la nostra disperazione solo perché la sincera, spietata concomitanza di alcune variabili – il caldo, l’età, e la stanchezza che uccide loro e noi – ce li restituiscono senza vita. I bambini dimenticati sono molti di più, se annoveriamo al calcolo un altro tipo di dimenticanza, quella silenziosa, mai consapevole di se stessa, che ce li rende lontani, piccoli e muti, sempre. Non per sfinimento, come accade al padre che si allontana dall’auto nella calda mattina di fine primavera. Restano soli e dimenticati, questi figli, perché non li vediamo mai veramente, mai prendiamo coscienza della loro calda esistenza. E se fortuitamente restano in vita, questi figli, ormai freddi e dimenticati, sono morti anche loro. E, da eterni bambini, verranno sfiniti dal peso di avere qualcuno di fragile da accudire, che amano più dello loro stessa vita ma che, sommessamente, li fa sentire inadeguati, sempre. Fino al punto di sfinirli. Ed ecco che, senza ragioni apparenti, dimenticano qualcosa alle loro spalle. E dopo c’è il grido.
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