Una storia semplice e disperata, quella di Matyla e la figlia Marie trovate morte di sete al confine fra Tunisia e Libia.
Una giovane donna proveniente dalla Costa d’Avorio che un giorno avesse la premonizione di diventare famosa su questa Terra insieme alla propria figlia, per pochi giorni, o meglio per pochi istanti – tanto dura la nostra attenzione, spesso – non dovrebbe trarne buoni auspici.
Perché Matyla e la sua bambina Marie, 6 anni, hanno raggiunto la fama per un’immagine disperata, che le ritraeva morte di sete, in una zona desertica al confine tra la Tunisia e la Libia dove erano state portate a forza e abbandonate. Un gesto che equivale ad una sentenza di morte, ad una lapidazione senza processo, giustificata da una legge più dura delle pietre che vengono gettate addosso, con viltà e crudeltà in pari misura.
Perché chi ha lasciato lì, in quel lembo di terra dimenticato da Dio ma ben conosciuto dagli uomini, quelle due creature meritevoli di cura e rispetto, se davvero fosse stato troppo dare loro amore, è stato un principe della viltà. Amore non potevano riceverne, quella madre con la sua bambina, perché chi nega l’amore non lo consce. Ma la cura ed il rispetto sì, è una merce che dovremmo esigere quando davanti ai nostri occhi c’è il deserto.
E lasciare due creature lì, e dar loro le spalle è la pratica oscura dell’uomo che brilla di luce nera anche sotto il sole più accecante. E’ la struttura contorta su cui si sostiene l’architettura dell’indifferenza, che resiste, dalla notte dei tempi, anche quando altre strutture edificate dall’uomo sono state spazzate via dal tempo. No, l’indifferenza resiste, un’erba selvatica che prospera nel deserto come sui ghiacci, proprio dove sembra folle lasciarla crescere. Quest’erba cattiva non ha bisogno di acqua, Matyla e Marie sì, l’hanno cercata disperatamente fino all’ultimo istante.
Le immagini che le ritraggono le mostrano riverse sulla sabbia, bagnate dalla compassione di qualcuno che ha tentato di soccorrerle e ha versato loro addosso dell’acqua, probabilmente, quella che era loro mancata per troppo tempo, nell’illusione che potesse richiamarle la vita. Come accade per le piante quelle che abbiamo colpevolmente dimenticato di curare, quando diamo loro acqua sperando cancelli la nostra dimenticanza. Ma quell’esile ramo e la fragile foglia che le si era stretta attorno erano andate.
Tardi per salvarle, tardi per chiedere scusa. C’è allora la sola immagine dell’irreparabile, e la nota biografica che tenta di mettere un qualche ordine in un’esistenza che sognavi normale devastata dalla crudeltà, dalla realtà verrebbe quasi voglia di dire, come quando dentro una casa dove è accaduto un assassinio rimetti al loro posto le sedie, o sposti i cuscini del divano, mentre i corpi restano lì, riversi nel salotto.
Ci fanno sapere, queste note, che Matyla aveva 30 anni ed era nata nell’ovest della Costa d’Avorio. Alla morte dei genitori si era trasferita in Libia dove aveva vissuto 5 anni insieme al giovane marito, Meengue Nymbilo Crepin, padre della piccola Marie. Hanno tentato di attraversare il Mediterraneo dalla Libia. E’ andata male ogni volta. Alla fine si erano decisi ad andare in Tunisia dove avrebbero voluto crescere la bambina che aveva bisogno di un punto fermo da dove osservare il mondo. Un’illusione durata un anno. Matyla e Pato – questo il soprannome di lui – sono stati mandati via dal campo dove vivevano e costretti a dirigersi verso il confine maledetto tra Tunisia e Libia. Deserto e sabbia, un sole accecante che ha fatto quel poco che restava da fare. Bastano poche ore perché il disastro si compia.
Ed ecco allora Matyla e Marie, un’immagine che ricorda quella del piccolo Aylan, lui riverso sulla spiaggia, con la sua maglietta rossa. Morì annegato. Troppa acqua o troppo poca. Ma il problema non è l’assenza o l’eccesso di quella trasparenza da cui scintilla via la vita. Il dramma è l’assenza di un pensiero capace di osservare e comprendere le immagini di una madre ed una bimba nel deserto, o in mare, e dia loro un senso che non sia di fastidio. Matyla era nata in un grumo di case malferme che alcuni chiamano città, altri villaggio, in Costa D’Avorio. Un luogo chiamato Man. Un nome che, letto nella lingua più diffusa del pianeta, significa “uomo”. Ecco, quella piccola famiglia nel deserto è morta come un essere umano non dovrebbe. E la sensazione che, nonostante i millenni, restiamo fermi nel buio pesto del medesimo luogo, ci sovrasta e porta la speranza a perdersi, anch’essa, nel deserto. La speranza a cui quella giovane famiglia non aveva smesso di credere. Ed è finita così, ora.
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