“E non ci indurre in tentazione” recitava il Padre Nostro antica maniera. Ma la tentazione della violenza è sempre ad un attimo da noi.
Parliamo di violenza, una storia antica come il mondo, qualcosa con cui abbiamo imparato a convivere con la stessa naturalezza con cui si convive con l’idea della morte. E, come la morte, non sappiamo mai davvero il momento in cui ne siamo diventati consapevoli.
Perché, tranne i pochi, sciagurati casi in cui la violenza coincide con l’infanzia – ed è allora la violenza altrui, fin dal principio subìta, ed è un nostro congiunto a farcela conoscere – la violenza come idea, come realtà multiforme e sfuggente si pone come una linea invisibile, ma non immaginaria, della nostra vita. Rappresenta l’inevitabile rito di passaggio.
Ecco, è un momento tragico. Solo un momento, così crediamo. Un animale raro, come quelli prossimi all’estinzione ma non si estingue mai. Sappiamo che esiste. Possiamo vederla più frequentemente di una bestia fuggita da una gabbia. Crea panico, provoca danni, sparisce. Ma nessuno può ucciderla. Si può, quando va bene, metterla in sicurezza, chiuderla a chiave. Sapendo che non sarà l’ultima volta.
Conosciamo questo pericolo dalla nascita del Mondo. È stata la nostra compagna, insieme alla paura. Talvolta ci ha salvato la vita, quando l’Uomo era una creatura tra le altre, un irripetibile crocevia di condizioni, al limite dell’impossibile, che non si era ancora conquistato il diritto di dominare e distruggere. Era preda, ancora. E la violenza ci ha salvati. Dopo, quando i millenni hanno sostituito epoche senza nome, e dopo hanno preso un nome, quelle epoche, si sono declinate in secoli e in anni sempre più prossimi a noi la violenza è stata una compagna scomoda, una parente alla lontana di cui vergognarsi.
Un’amante sudicia che qualche volta continuava ad attrarci, a piacerci. Ma non potevamo dirlo, non si poteva portarne addosso l’odore. Ma è rimasta sempre nei paraggi. Se dopo averla ignorata a lungo abbiamo preso con una certa naturalezza a frequentare il buffet delle buone maniere, ecco che la violenza si avvicina, sordida, a rovesciarci il piatto e ad allontanarsi, ridendo.
Una brutta storia, una seconda famiglia, una famiglia di mostri, con figli e parenti sciancati a reclamare la nostra attenzione. Perché noi ne facciamo parte. La nostra famiglia, la nostra origine è violenza, un albero genealogico ben conficcato nelle sofferenze altrui. L’altra famiglia, quella delle buone maniere, è l’illegittima, quella di facciata e di comodo. Nel momento in cui la lancetta segna quest’ora nella Storia dell’Uomo la violenza potrebbe sembrare l’incidente di una vicenda privata. E questo ci rassicura. Ma non è così. Perché una squarcio di cronaca ci dice che stiamo commettendo il solto errore di valutazione. E dobbiamo ricominciare da capo.
La cronaca ci sbatte in faccia una storia che proviene dalla Questura di Verona. La feccia in faccia, viene da dire, se diamo ascolto alle prime voci. Una storia banale per come è antica, antica come il Mondo, dicevamo, ma sufficiente a mostrarci una violenza ancora padrona delle nostre vite. Perché quando a praticarla, sistematicamente, sono uomini legati ad un vincolo di appartenenza, ad un luogo e ad un codice, allora è un Memento Mori, un ricordati che devi morire: un monito banale, ma che fa sempre il suo sporco, maledetto effetto.
Ed il monito è quello, e con la medesima forza persuasiva, inevitabile, della morte: non ci libereremo mai della morte, e dell’altra, la sorella che spesso arriva poco prima. E talvolta anche dopo, quando a subirla, la violenza, sono corpi senza vita che devono affrontarla ancora, da soli. E diventano irriconoscibili.
Quando parliamo di quanto accaduto a Verona, parliamo di violenza, non di morte, per ora. Ma è sufficiente perché l’abecedario dello schifo sia tutto lì, dalla prima lettera all’ultima, ad essere sillabato da soliti scolaretti senza anima e senza legge, loro, che la legge dovrebbero conoscerla e indossarne gli abiti, perfino. Ed invece le divise si sono sporcate e per i soliti motivi. Loro, le stesse persone a cui si chiede un’informazione, credendo di sentire il tenue bagliore, sgrammaticato in rantolo, dove si frange nella pratica infima e infinitesimale l’ultima eco e propaggine dello Stato e della sua voce, se mai ne ha avuta una.
Sì, parli con uno di loro ed è lo Stato che si fa carne, occhiaie di notti insonni, malumori e capelli brizzolati. La media mediocrità dell’Uomo, ma ci deve pur essere, qualcosa che sia una via di mezzo tra una mezza burocrazia ed un finto esercito. Servono anche loro se sei una donna ed il tuo compagno con la sua infima anima a quattro zampe ti bracca e te ne stai chiusa in bagno, a piangere, con lui che batte alla porta e quasi la butta giù, a calci. Dio lo maledica se esiste un dio. Ma un dio in quei momenti non esiste mai.
Ecco che la violenza che viene a difenderti, quella dei poliziotti buoni, è una benedizione. Ma dopo non è facile rimetterla in tasca, quando la belva esce dalla gabbia e sembra dire “Dai divertiamoci, tu poi” perché la seduttività di questo pensiero si alimenta nella convinzione che la divisa può essere un lasciapassare, un pescare di frodo nella notte senza luna. E allora la violenza diventa un gioco. E quando accade è la fine perché si perde il senso dell’orrore, e del limite. Per gioco, forse, i poliziotti avrebbero detto ad un ragazzo, fermato per l’identificazione, di fare pipì lì, dove si trovava, come fosse un cane costretto a marcare il territorio. E questo basterebbe, se ci fosse un limite all’indecenza.
Ma non, non c’è. Dopo lo hanno trascinato sul pavimento “impiegandolo come uno straccio per pulire“. Hanno gettato qualcosa di urticante negli occhi dei fermati come se, inconsciamente, non volessero essere visti, e rendersi invisibili allo sguardo della coscienza, quella delle loro vittime che lo osservava come invece erano, ciechi e senza coscienza. Ma hanno fatto di peggio: ad un altro lo hanno preso a calci fino a fargli perdere i sensi. Calci in testa, sì, in testa. Cinque agenti della squadra sono ai domiciliari, ora. Sono a casa, in casa loro, dopo aver pestato a sangue chi non aveva casa. Per due di loro c’è l’aggravante dell’odio razziale. Ecco, nel vestito dell’orrore questa è una coccarda da tenere sul petto.
Si parla anche di noia, una brutta amante di cui non ci annoia mai, e mai ci si libera, quando entra nelle nostre vite a abbiamo il meschino potere di fare del male agli altri. Per noia un uomo è stato trascinato, come se non fosse un uomo, nella stanza delle persone sottoposto a fermo. E lì fermo non è riuscito a stare, perché a terra, sporco della propria incontinenza, è rimasto per venti minuti profondi come l’abisso, in preda a spasmi e difficoltà respiratorie, provocate dalle stesse persone che l’avevano trascinato nel luogo di quella profonda, muta disperazione
C’è un dettaglio, raccontato non si sa se per rabbia o per pietà nelle pagine dell’atto di accusa “Quando era disteso al suolo lo deridevano e gli puntavano contro, a intermittenza, una torcia”. Sembra un passo del Vangelo, questo modo austero e asciutto di raccontare, con esattezza, la violenza subita da un povero Cristo. Dopo c’era la goliardia, anche. Violenza e goliardia, scrive il magistrato, una donna, che ha stanato l’orrore e lo racconta in 169 pagine piene di dettagli. Parole che mettono la parola fine alle cattive abitudini di 15 uomini e donne – sì, donne, il lato nero della parità di genere si vanta di queste carte vincenti sul tavolo di un gioco d’azzardo nella stanza del retro.
Ecco la vittima di turno, ecco il full di donne e la follia è servita, anche per loro. La goliardia come parte del gioco, con frasi e frasario da caserma, le risate stupide, dopo i lividi sui corpi altrui. Potete immaginare, o forse no. Non hanno immaginato nulla molti dei colleghi, si pensa, perché la violenza era praticata in luoghi senza pareti che potessero nasconderla o in stanze racchiuse in pareti di vetro, proprio per mostrarla e, prima ancora, prevenirla. Ma non è bastato, come non bastò a Caino sapere di essere osservato.
La violenza da sempre, si crede invisibile, perché sa di essere ovunque, come un dio. Un dio veloce e cattivo non l’altro, quello lento all’ira che dopo ti chiede “Dov’è tuo fratello” ma intanto hai avuto tutto il tempo di renderlo un cencio, tuo fratello. Venti agenti sono stati trasferiti altrove, dopo i fatti, forse perché i fatti li hanno visti ed hanno finto che il plexiglass fosse un muro. È meglio stiano lontani, ora, perché prima erano prossimi, troppo, a quello che accadeva. E sono stati muti come un muro.
Ma non tutti muti, non tutti ciechi lì dentro. Per sette mesi altri agenti, quelli della Mobile, hanno osservato i colleghi, hanno seguito le tracce e teso la trappola alla violenza. Ed infine hanno tirato il filo che ha fatto scattare l’ingranaggio capace di fermare le cattive abitudini, la goliardia infima, l’odio sempre uguale a sé stesso, banale e fugace. E in fuga, anche. Perché è l’odio, il vero padre della violenza, così simile a lei da confondersi con essa, il vero fuggiasco.
È lui l’ombra che fugge dalla civile convivenza con le lenzuola annodate, come fosse un carcere, lasciando gli altri, quelli che hanno ceduto al suo fascino, nel carcere vero. Ma lei intanto fugge, la violenza che si fa odio e l’odio che si nasconde come un’ombra. Una belva in cerca di prede in quell’infinito territorio di caccia che è la vita dell’Uomo. Dio abbia pietà di noi e non ci abbandoni alla tentazione, quella del piccolo dio che vive con noi, non muore mai. E ci vuole pieni d’odio e morti, gli uni per gli altri.
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