Il Panaro era il suo fiume, da una vita. Ne conosceva il letto palmo a palmo, e lo decifrava come fosse il linguaggio di un fratello.
Gianluca Cremonini era andato a pescare sulla riva del Panaro, vicino a Bomporto, nel Modenese. Sapeva bene dove andare. Aveva 58 anni e abitava da sempre nei dintorni, in una casetta a poche centinaia di metri. Lasciato l’asfalto della strada Villavara, che costeggia il Panaro per più di un chilometro, occorre salire sull’argine e attraversare per una decina di metri la fitta vegetazione che precede la riva, tra alberi, arbusti, erba e cespugli. Non è facile quindi capire dove possa trovarsi un uomo.
Il Panaro è da sempre uno dei fiumi più pericolosi d’Italia. Nella zona tutti sanno che il corso d’acqua s’ingrossa rapidamente in primavera, poiché le sorgenti si trovano relativamente in alto. Al punto da poter ricevere un ventaglio di fiumi e torrenti appenninici. Diventa dunque impetuoso nel giro di un sol giorno, salvo poi entrare in magra con altrettanta facilità d’estate. Cambia aspetto facilmente, come un killer esperto.
Uno dei centri abitati ha preso il nome di San Cesario, patrono del Comune dove l’uomo è nato, santo protettore dei bagnanti. Appunto perché il santo morì condannato all’annegamento in mare. L’uomo, nel suo pomeriggio di relax, ha dovuto fare i conti con una frattura alla gamba di qualche anno fa. Da allora, camminare per lui comportava movimenti poco naturali.
Probabilmente ha perso l’equilibrio ed è caduto. In altri tempi si sarebbe risollevato senza difficoltà. Questa volta il dolore gliel’ha impedito. Ha gridato più forte che poteva e chiamato aiuto. Nei dintorni però non c’era nessuno, nemmeno in visita al vicino monumento ai caduti del 9 marzo ’45, molto frequentato. C’era stato un eccidio fascista, a Navicello, con dieci ostaggi civili fucilati su quello stesso argine da una brigata nera. Il 2 agosto, però, si è ritrovato da solo contro il fiume. Non è passato un ciclista, nessuno a piedi, che potesse sentire un grido.
Ha lavorato per trent’anni in un’azienda metalmeccanica, sapeva destreggiarsi. Il dolore però era più forte. Il Panaro deriva il nome dal dialetto Panèr, “marcio”. Del fondale insomma non c’è da fidarsi molto. Restava il cellulare. Terrorizzato, ha chiamato la sua compagna. Ha detto di essere caduto nel fiume, ha chiesto aiuto. La donna è corsa a cercarlo, ma dov’era? Chi dall’argine può vedere un uomo nel fiume, con gli alberi che coprono parte della visuale? Poteva giacere vicino alla riva, però nel raggio di un chilometro.
Allora la donna ha chiamato i soccorsi, e poi il figlio. Era questione di tempo. Ma era già tardi. Il Panaro, impietoso, ha inghiottito l’uomo che sin da bambino lo cercava come un compagno di giochi. E che in pochi minuti è diventato per lui un baratro d’acqua. L’uomo teneva stretto in pugno il suo cellulare come un’ancora di salvezza. Sperava di poter chiamare all’ultimo momento e dire dove si trovava precisamente. E infatti l’hanno chiamato e richiamato più volte, perché lo dicesse.
Invece, i sommozzatori dei vigili del fuoco hanno impiegato alcune ore per strappare la salma al fiume. Aveva ancora in pugno il telefonino. E’ stato cercato anche con i droni, per un vasto tratto, durante le operazioni coordinate dalla Prefettura. Era rimasto vicino al punto in cui era scivolato, ma non era visibile. La sua compagna e il figlio sono rimasti sull’argine a lungo, nell’ipotesi che fosse riuscito ad aggrapparsi a un ramo, un cespuglio, un tronco.
I fiumi emiliani sono stati feroci quest’estate, con chi cercava solo di rinfrescarsi. Un mese prima un nordafricano di 42 anni, Abdellatif Nadif, ha fatto un tuffo nel Panaro, a Ponte Samone (Modena). Stava girando un video da postare sui social, mentre il fratello lo guardava dalla strada e non l’ha più visto riemergere. I soccorritori non hanno potuto salvarlo. Abitava nel Piacentino. Uno studente di 18 anni, Yahya, in giugno si era tuffato a Marzaglia Vecchia: ci sono voluti cinque giorni per ritrovare il suo cadavere, a mezzo chilometro di distanza. E ancora un 29enne ha perso la vita nel Montone (Forlì), in luglio. Ai primi del mese l’acqua ha mietuto altre due vite umane, padre e figlio di 60 e 25 anni, divorati dal Trebbia piacentino.
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