A gennaio era uscita una previsione molto ottimistica sul riassorbimento del buco dell’ozono nel giro di quarant’anni. Non andrà proprio così
L’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga, che risale al gennaio del 2022, ha causato, oltre a diversi tsunami, gravi problemi allo strato di ozono che protegge l’atmosfera terrestre, rendendo il clima gradevole per l’uomo. Problemi non immediati, che si sono fatti sentire più di un anno dopo. Il vulcano infatti ha iniettato nella stratosfera, dal centro del Pacifico dove si trova, grandi quantità di vapore acqueo, che hanno raggiunto il polo sud dopo la fine del buco dell’ozono del 2022.
Da lontano sono stati fotografati pennacchi di vapore, fumo e cenere durante l’eruzione sottomarina, un fenomeno che inevitabilmente ha surriscaldato l’acqua del Pacifico meridionale in quella zona, determinando ulteriore effetto serra, una volta che il caldo vapore acqueo ha raggiunto l’altezza dello strato d’ozono. C’è voluto più di un anno. Nel 2022 il buco non ha fatto in tempo a patire gli effetti dell’eruzione. Il cosiddetto buco, che in realtà è un assottigliamento ciclico del cuscinetto d’ozono, infatti ha dimensioni variabili: ogni anno si allarga fra metà settembre e metà ottobre, per poi iniziare a restringersi.
Un’eruzione sottomarina dagli effetti pericolosi
Il fenomeno dello squarcio nell’ozono è vistoso sui due poli, ma si verifica intorno a tutto il pianeta. Quest’anno, come hanno dimostrato le analisi di Antje Inness, il buco ha segnato un preoccupante primato storico. La scienziata lavora per il Cams (Copernicus Atmosphere Monitoring Service) e si è avvalsa dei dati forniti dal satellite Sentinel-5P, elaborati in Germania dal Centro Aerospaziale Tedesco, che hanno mostrato l’allargamento del buco sin da agosto, con un anticipo eccezionale. Non è tutta colpa di un vulcano, anche se lo Hunga Tonga ha cooperato agli effetti negativi, generando lo squarcio più grande di sempre: 26 milioni di chilometri quadrati, tre volte il Brasile.
Precisamente, come ha spiegato Antje Inness, l’enorme quantità di vapore acqueo causata dal vulcano può determinare una maggiore formazione di nubi stratosferiche polari, dove i clorofluorocarburi possono reagire e ridurre rapidamente lo strato di ozono. Il rapporto fra eruzioni vulcaniche e riduzione dell’ozono è già stato studiato anni fa: quando si verificano eruzioni rilevanti, com’è successo già nel 2009, il fattore negativo dell’inquinamento umano trova un alleato pericoloso.
Il buco d’ozono non è mai stato così grande
Sin dall’inizio delle osservazioni, a causa delle caratteristiche climatiche la voragine è più grande sopra il polo sud che sopra l’Artide. L’inquinamento causato dall’uomo è storicamente la causa principale del buco, scoperto nel 1985 sopra il polo sud e misurato sin dal 1979. Tutto dipende in particolare dai clorofluorocarburi, che rilasciati soprattutto dai vecchi frigoriferi nell’atmosfera, hanno innescato una reazione a catena che si propaga dentro lo strato dell’ozono, riducendolo.
L’equilibrio dello strato di ozono va preservato obbligatoriamente, se si vuole continuare a vivere sul nostro pianeta. Il Protocollo di Montréal ha rapidamente vietato, già nel 1987, la produzione di clorofluorocarburi. Che fosse urgente applicarlo, lo ha dimostrato la scoperta del 1988: lo strato d’ozono era bucato anche sopra il polo nord. Nel 1990, così, erano già 90 i Paesi allineati con il Protocollo.
Senza la protezione assicurata dal cuscinetto di ozono che si trova nella stratosfera, al di sopra dell’atmosfera terrestre, la vita sulla Terra sarebbe molto difficile, perché verrebbe meno il filtro naturale ai raggi ultravioletti. Sarebbe un guaio per la salute degli esseri umani, che patirebbero malattie della pelle gravi come i melanomi, altre malattie tumorali e problemi agli occhi. In generale, le radiazioni ultraviolette sterilizzano moltissime forme di vita, rendono più difficile la fotosintesi delle piante e distruggono nel mare parte del fitoplancton. L’ecosistema terrestre verrebbe gravemente danneggiato e ridotto.