Il primo ministro israeliano viene contestato all’interno del governo, oltre che dall’esercito e dai sondaggi. Ma si fa ancora più aggressivo
Benjamin Netanyahu è chiamato a una prova di abilità politica del tutto particolare. Non potrà ricorrere alle soluzioni che ha adottato in passato, quando ha avuto l’opportunità di distruggere il lavoro di Rabin e Arafat per la pace. Allora, nel ’96, è diventato premier per la prima volta dopo aver sollecitato l’orgoglio ferito dei conservatori. E’ riuscito nell’impresa di rappresentare gli israeliani che di Stato palestinese non volevano nemmeno sentir parlare.
E nel 2009 è tornato a guidare al governo dopo l’operazione Piombo Fuso, assieme all’estrema destra. Mai però è riuscito a garantire pace e sicurezza, né a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza, come pure l’Onu aveva richiesto. Anzi, ha continuamente autorizzato nuovi insediamenti abitativi al confine conteso con la Cisgiordania, comportandosi come se i palestinesi non esistessero nemmeno.
Il consenso del premier si sgretola su più fronti
Israele non ha una costituzione come non ha confini certi, col risultato di non poter dare un orientamento fondamentale che persista nel mutare delle circostanze storiche. Netanyahu, in altre parole, deve affrontare una tempesta senza avere una bussola. Ci sono almeno tre ministri che meditano le dimissioni, per costringere il premier ad ammettere pubblicamente le proprie responsabilità.
Deve prendersi la colpa, secondo le contestazioni interne al governo, della strage del 7 ottobre. L’esercito era altrove, a proteggere i coloni, quando dall’altra parte del Paese i kibbutz al confine con Gaza sono stati lasciati senza protezione. Il sito Ynet, che dipende dal quotidiano Yediot Ahronot, ha garantito l’anonimato ai tre potenziali dimissionari.
Non ha saputo proteggere i cittadini che lo hanno scelto
Ma le difficoltà non sono solo di tipo politico. Il premier è sottoposto a pressioni inaudite per lo Stato ebraico. Un sondaggio pubblicato sempre da Ynet indica che il 75 per cento dei cittadini danno a Netanyahu la responsabilità politica del massacro perpetrato da Hamas. Dalle stesse forze armate si sono fatte sentire voci critiche verso il primo ministro. E proprio in un Paese che non può sopravvivere, se non c’è armonia tra governo e militari. Mai, però, nella storia di Israele l’esercito era stato umiliato in quel modo. E mai sono stati fatti tanti ostaggi.
Eppure, Netanyahu non si prende responsabilità, anzi cerca di recuperare rafforzandosi sul piano internazionale, alzando il livello dello scontro. Un’occasione è stata offerta dall’incontro di ieri 24 ottobre con il presidente francese Macron. Il leader israeliano al termine ha indicato Hamas come nemico tale da meritare un’ampia coalizione di Stati, come nel caso dell’Isis. Il pericolo non riguarda il solo Israele, ma anche l’Europa e il mondo intero. Di nuovo viene evocata una guerra di civiltà contro la barbarie. Rivolgendosi a Emmanuel Macron, ha ricordato i massacri dei civili a Nizza e a Parigi.
Lo scenario apocalittico tratteggiato da Netanyahu
Hamas è stato paragonato al partito nazista e poi all’Isis. Ancora una volta, il leader israeliano ha messo in secondo piano i diritti dei palestinesi oppressi da decenni, identificando un popolo intero con un gruppo terroristico. Una semplificazione eccessiva, che non vuole tener conto di una lunga storia, in cui il consenso ad Hamas è cresciuto grazie ad attività benefiche, riconosciute e sostenute nel Novecento proprio da Israele. La cui strategia, allora, era indebolire Arafat, assai popolare in Europa.
Nella Striscia di Gaza, Hamas ha potuto organizzare scuole, università, ospedali e forme di assistenza ai poveri, oltre al terrorismo contro Israele. Un intreccio di motivazioni quanto mai pericoloso. Ora che il partito armato ha la maggioranza nella Striscia, mentre è più debole al nord, Netanyahu insiste comunque nella sua chiamata alle armi. Senza dare alcuna prospettiva di pace, ma solo di distruzione totale del nemico. La guerra, anzi l’annientamento del nemico, come unica possibilità di soluzione del conflitto, benché in tutto il mondo siano molte le manifestazioni a favore dei civili palestinesi.
L’incontro con il presidente francese e le dichiarazioni
Macron da parte propria ha dapprima accolto l’invito di Israele a proporre una grande alleanza internazionale, salvo poi, viste le reazioni allarmate, precisare che intendeva riferirsi solo a un’ispirazione a unire le forze, senza la volontà di ripetere le battaglie più cruente, come quella di Falluja. Macron ha poi pronunciato avvertimenti nei confronti di Hezbollah, dell’Iran, degli Houthi nello Yemen e di tutti gruppi o fazioni che minacciano Israele.
Che non si corra il rischio sconsiderato di aprire nuovi fronti. Perderebbero tutti, nel caso di una deflagrazione regionale. C’è un obiettivo che merita il massimo sforzo, ed è quello di non rispondere al sangue con il sangue e alle lacrime con altre lacrime. Di nuovo, il presidente francese ha affermato il diritto di Israele a difendersi. Nello stesso tempo, la Francia si pone un chiaro obiettivo: la liberazione degli ostaggi. Contemporaneamente, però, Israele proseguiva la lunga serie di raid aerei e di bombardamenti della Striscia, con centinaia di morti.