Negli ultimi anni assistiamo sempre di più a quello che potrebbe essere definita la “cultura della cancellazione“ anche conosciuta con il termine di “cancel culture”.
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Si tratta di una interessante forma di boicottaggio che, in questo preciso caso e facendo riferimento al contenuto di questo articolo, però non riguarda direttamente l’acquisto di un prodotto quanto più che altro e il rifiuto di alcuni stereotipi culturali che sarebbero veicolati dalla casa di produzione probabilmente più famosa al mondo, ovvero la Disney.
Con l’andare del tempo è come se le persone si fossero rese molto più consapevoli da un lato del proprio potere e dall’altro del potere delle multinazionali.
La Disney è probabilmente l’artefice di quella che potrebbe essere considerata la gran parte dello storytelling per l’infanzia che veicola attraverso la produzione di film, cartoni animati, lungometraggi, cortometraggi, ecc.
Si può dire che anche a causa degli investimenti che è in grado di fare, degli studi di settore, della capacità persuasiva e immaginifica che in qualche modo ha sviluppato nel corso del tempo, abbia una grande influenza dal punto di vista comunicativo.
Peraltro si rivolge molto spesso a delle fasce di età particolarmente sensibili: infatti i bambini sono come delle spugne, basta che guardino o ascoltino qualcosa che va a colpire la loro fantasia e il loro immaginario e immediatamente sono in grado di rimanerne influenzati. Ciò significa che possono crescere assimilando e poi mettendo in pratica determinate idee.
Forse è proprio per questo che la Disney è stata presa di mira dalla cancel culture, che ha esaminato attentamente i suoi prodotti audiovisivi probabilmente con la necessità di andare a tutelare le giovani menti.
Non è un fenomeno da poco perché può influenzare molto dal punto di vista economico il risultato reale del fatturato di un’azienda.
Tante volte la cancel culture, magari rivolta direttamente contro una figura pubblica, ne ha decretato il fallimento e ha posto termine alla sua carriera. Ci sono dei grandi classici Disney, come quei cartoni animati che hanno segnato l’infanzia di tanti di noi, ormai non più giovani, che sono stati presi di mira.
A volte si tratta di vere e proprie pietre miliari dell’animazione. Quei cartoni animati che tutti riteniamo intoccabili e che magari non vediamo da tempo: peccato che chi ha la passione per il rewatch (ovvero va a riguardare cose che ha già visto e magari anche apprezzato per andare a rileggere con gli occhi del momento) ha individuato dei punti specifici che rendono questi classici Disney sconsigliabili alla visione dei più piccoli.
Certo, può succedere che con i diversi ricambi generazionali ed una costante rivisitazione dei valori che connota la natura umana e le culture del mondo, dei prodotti possono perlomeno “invecchiare”.
Non è qualcosa di così strano se ci si pensa e anzi, dal punto di vista cinematografico e letterario quello che rende i capolavori dei capolavori senza tempo è proprio il fatto che i valori che esprimono tendono a perdurare e ad essere considerati universali. Pare, però, che molti classici della Disney non siano più, in alcuni casi, considerabili come classici.
Prima di tutto è importante dire che la cancel culture ha ottenuto dei risultati tangibili: alcuni classici della Disney, di cui parleremo di seguito, sono stati tolti dalla piattaforma di Disney+ e addirittura ne è stata vietata la visione ai bambini che hanno una età inferiore di sette anni perché ritenuti non idonei alla loro comprensione.
L’accusa maggiore che viene mossa a questi cartoni animati è quella di razzismo oltreché di andare a veicolare degli stereotipi dannosi.
Per quanto riguarda il razzismo è un tipico caso è quello di Peter Pan, dove ci sono dei nativi americani. Sappiamo bene quanto il tema sia caldo in quella parte del mondo) vengono chiamati con il termine “pellirosse”.
Parrebbe considerato politicamente scorretto e razzista anche il cartone animato degli aristogatti. In questo caso il gatto siamese, in quanto siamese e apparentemente asiatico, venga ritenuto offensivo per questa cultura proprio a causa della sua rappresentazione e della sua connotazione caricaturale./strong>.
Non si tratta peraltro dell’unico gatto siamese presente all’interno di un cartone animato della Disney: una coppia di gatti siamesi, scimmiotta alcuni stereotipi asiatici, ridicolizzando con loro comportamenti la cultura di questi popoli.
All’interno del cartone animato Dumbo, è stata discussa la ridicolizzazione degli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di cotone della confederazione degli stati del sud degli Stati Uniti.
Sempre per quanto riguarda gli afroamericani, viene individuata una scimmia, all’interno del cartone animato del libro della giungla, che cantando jazz sembrerebbe una caricatura della popolazione, rappresentata come pigra e sfaticata.
Aldilà della cancellazione sulla piattaforma e del divieto di visione, Disney per correre al riparo da queste critiche ha deciso di andare ad inserire un avvertimento che anticipa la visione di alcuni cartoni animati.
Il disclaimer avvisa lo spettatore che il programma contiene degli stereotipi che potrebbero avere un impatto dannoso. Si tratta di un mea culpa, non si sa quanto realmente sentito, che cerca di andare a salvare il salvabile: al termine del disclaimer Disney si impegna di impegnarsi attivamente per andare a costruire un dialogo volto alla creazione di un futuro più inclusivo.
Il fenomeno della cancel culture continua ad essere studiato per capire quali siano le dinamiche ad essa sottostanti. C’è chi la vede come una ideologia politica, forse una delle più potenti forme di “politica dal basso” che esista attualmente.
Ma c’è chi la vede semplicemente come lo sviluppo problematico di una cultura digitale, dove diverse comunità online si riuniscono per giudicare i contenuti e manifestare il suo dissenso.
La polemica divampa perché ci sono anche tantissime persone che sono contro la cancel culture, vedendola come una forma oppressiva di censura.
Il discorso non è semplicissimo perché bisognerebbe andare a stabilire se siamo o dobbiamo essere liberi di poter dire e fare tutto quello che vogliamo in nome della libertà stessa: la nostra che spesso va a cozzare con quella degli altri.
Certo è che i primi risultati pare che siano visibili e riescono a spostare, non di poco, anche le politiche aziendali di una delle più famose multinazionali del mondo.
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