Uscirà il 10 e 11 aprile nelle sale cinematografiche il documentario Hopper: Una storia d’amore americana diretto da Phil Grabsky. Si parlerà della nascita della sua carriera artistica e della relazione con la moglie Jo, determinante per la sua arte e per la sua vita.
Ne ha curato la produzione Phil Grabsky, insieme alla Exibition on Screen, affidando la colonna sonora a Simon Farmer. Tutto curato nei minimi dettagli, perché il personaggio è di quelli che merita. Edward Hopper è uno dei pittori americani più famosi del XX secolo, ha influenzato registi come Hitchcock e Lynch, artisti come Rothko e Bansky, ma anche fotografi e musicisti. L’ultima volta che abbiamo avuto la fortuna di avere le sue opere in Italia è stato nel 2016. Al Complesso del Vittoriano è stato possibile ammirare una selezione dei suoi dipinti, disegni e acquarelli con cui entrare nel mondo del grande maestro del realismo americano.
Edward Hopper è rinomato per la sua capacità di catturare l’essenza della solitudine e dell’isolamento nelle sue opere d’arte. Nighthawks presenta questa tematica in modo netto, è una delle sue opere più famose. In un diner bar, gli avventori sono sistemati separati tra loro e sostano in un’atmosfera silenziosa che mette in evidenza la distanza. La rappresentazione della solitudine è talmente potente da trasformare l’immagine in una icona. Presente nelle copertine dei libri, negli studi di psicologia, nel cinema, la commercializzazione di questo frammento di vita ha prodotto davvero tanti milioni di dollari.
Perché ci sentiamo soli nelle città moderne? Ce lo spiega Hopper. La scelta di ambientare Nighthawks in un diner urbano notturno non è stata casuale. Il contrasto è dato dal fatto che la location dovrebbe essere una delle più vivaci. Ma le luci al neon, l’atmosfera urbana anonima, il senso di alienazione dei personaggi, dimostrano come nelle città moderne è possibile sentirsi soli anche in mezzo alla folla. Perché ci succede questo?
Se riflettiamo bene ci è capitato sicuramente di sentirci soli anche in mezzo a tante persone. È una situazione tipica delle città così come sono state pensate oggi. E già Calvino ci aveva avvisato diversi anni fa. Ma nella vita attuale ci sono altri pericoli che incombono. Con l’avvento dei social media e della tecnologia imperante, la solitudine cronica si è accentuata mettendo a rischio la salute mentale degli individui. L’uomo è un animale sociale, e infatti la ricerca condotta dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health ha messo in evidenza proprio gli effetti della solitudine su questo animale particolare. Lo studio pubblicato dalla JAMA Psychiatric nel 2019 ha stabilito un collegamento rilevante tra solitudine e depressione dopo aver studiato oltre 3.000 adulti statunitensi. Lo stress portato dal Covid ha sicuramente peggiorato la situazione. Ed è per questo che Edward Hopper continua a rimanere un punto di riferimento. Le situazioni da lui trattate ci toccano e ci fanno male da vicino.
Attraverso il dipinto di Hopper siamo portati a riflettere sulle implicazioni psicologiche della solitudine che proviamo. Ma anche sulle strategie da adoperare per combatterla. Secondo l’organizzazione no-profit britannica Mind, ci sarebbero diversi percorsi da intraprendere per combattere la solitudine in città. La prima sarebbe quella di migliorare la conoscenza del proprio quartiere partecipando ad attività organizzate da gruppi sportivi, associazioni culturali e volontariato.
In particolar modo, il volontariato sarebbe una medicina potentissima contro la solitudine, occuparsi degli altri ci fa sentire meglio, ci permette di fare conoscenze non superficiali, di avere uno scambio di emozioni molto forti. Sarebbe, insomma, molto appagante. Il senso di appartenenza che si crea elimina quello di solitudine e ci aiuta a vedere la nostra vita in un’altra prospettiva. Più costruttiva. Sono tanti gli eventi che ci possono far scoprire le realtà che ci interessano di più nell’abito del volontariato. Possiamo informarci online, oppure chiedendo informazioni negli uffici dei sindacati preposti nel rione.
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