Perché le critiche, anche quando vengono avanzate in modo costruttivo, restano così impresse nella nostra memoria e ci fanno soffrire? Scopriamolo insieme.
Chi ha mai sentito parlare del cosiddetto “pregiudizio della negatività”? Ebbene, si tratta di un bias, ovvero di una deviazione dalla razionalità nei processi mentali che riguardano il giudizio e che comporta negli esseri umani la tendenza a prestare maggior attenzione alle esperienze negative rispetto a quelle positive. E quindi anche a ricordarle di più ed a far sì che occupino i nostri pensieri in quantità prevalente.
Perché ciò avviene? Perché i ricordi legati a esperienze dolorose sembrano rimanere più impressi nella nostra mente rispetto ai ricordi di eventi piacevoli? Le discipline della psicologia, della neuro scienza e anche dell’economia hanno provato a dare una risposta tenendo conto di tre fattori principali: ovvero il processo evolutivo che riguarda l’istinto di sopravvivenza, il desiderio del controllo e la dimensione del confronto sociale.
Da un punto di vista evolutivo, nel corso dei millenni la nostra specie ha sviluppato una spiccata reattività agli eventi che rappresentano potenziale pericolo per la nostra sopravvivenza: ad esempio, come spiegato dallo psicologo statunitense Rick Hansen, anche solo uno sguardo arrabbiato rivolto nei nostri confronti, percepito per una frazione di secondo, trasmette all’amigdala del nostro cervello un segnale di allarme che viene poi “immagazzinato” nella memoria per essere riconosciuto ancor più velocemente in caso si ripeta in futuro. Al contrario, un segnale positivo necessita di circa 12 secondi per essere registrato dal cervello nello stesso modo. Perché ciò avviene?
Ebbene, una spiegazione chiara del perché di questa dinamica può essere rintracciata nel nostro passato: per poter sopravvivere e reagire prontamente agli imprevisti e alle difficoltà dell’esistenza, infatti, i nostri antenati hanno dovuto sviluppare una spiccata abilità nel riconoscere le minacce e nel reagire ad esse con la massima prontezza. Per questo motivo, in prevalenza le attenzioni maggiori – soprattutto in termini cognitivi – sono state dedicate agli eventi negativi, o potenzialmente tali o anche soltanto percepiti come tali.
Se dunque torniamo ai giorni nostri e alle critiche che riceviamo, ecco perché ci fanno così male anche quando espresse in modo costruttivo: perché in ogni caso le interpretiamo come minacce alla nostra sopravvivenza, all’inclusione e accettazione sociale e alla possibilità di controllare autonomamente il corso della nostra vita. Dunque le imprimiamo nella nostra memoria per poterle riconoscerle più facilmente e velocemente e, a causa del loro aumento in conseguenza della sovraesposizione causata dal web e in particolar modo dai social, ci alleniamo costantemente, potremmo dire incessantemente, ad affrontarle. In prevalenza, dunque, ci occupiamo e preoccupiamo di questo: della negatività.
E la sovraesposizione può giocare un ruolo particolarmente deleterio e compromettente delle nostre capacità di affronto delle critiche e di fiducia e ottimismo nei confronti della vita che conduciamo: perché mai prima d’ora siamo stati “costretti” ad affrontarne in così gran quantità, o abbiamo scelto di esservene esposti partecipando alle dinamiche relazionali tramite internet, che hanno ingigantito la quantità di critiche e di giudizi su (quasi) ogni aspetto e dettaglio del nostro essere e agire.
I quali, fino a solo pochi anni fa, erano esclusiva di un ristretto numero di persone tra i nostri famigliari, amici, compagni di scuola e colleghi di lavoro, dunque assai meno quantitativamente e, di conseguenza, più “semplici” da gestire e processare. Per questo motivo occorre misura e cautela: perché, proprio in termini evolutivi, non siamo equipaggiati per poter sostenere un “peso” così rilevante di pressioni e giudizi che, spesso, assumono le sembianze di sentenze compromettenti e definitive.
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