Raffaello è tornato a dipingere, aggregandosi al meraviglioso campionario degli autori postumi, che comprende fior di artisti e di filosofi.
Nella musica c’è sempre un’Incompiuta, una Decima di Beethoven e una Decima di Mahler, una sinfonia di Schubert rimasta nascosta in un baule per vent’anni o un concerto per violino e orchestra la cui esistenza Robert Schumann rivelò a una medium, riconoscendolo come proprio – ed era clamorosamente vero. Così come Schelling continua incessantemente a pubblicare gli inediti, due secoli dopo, e Hegel naturalmente a sua volta nel 2022 riemerge con i manoscritti di una serie di lezioni e di conferenze. Ricordiamo pure lo Zibaldone di Leopardi, perduto e ricomparso per puro caso un secolo dopo.
Ed è sempre un grande affare, va sottolineato. Lo stesso capolavoro, se cambia l’autore, vale molto di più. Se poi si tratta di un maestro come l’Urbinate, i sospetti sono legittimi e anzi il dibattito infuria. Vediamo perché. Sinora si è creduto che “La Maddalena”, olio su tavola di pioppo, di 46 centimetri per 34, fosse un dipinto originale di Perugino, datato 1504. E’ esposta a Palazzo Pitti; un’altra versione si trova in Galleria Borghese. Ne esisterebbe una terza, l’originale che ha preceduto le due esposte nei musei italiani e che appartiene a una collezione privata, accessibile solo a pochi. Ebbene, questo prototipo di Raffaello sarebbe decisamente migliore delle due versioni attribuite a Perugino.
Perugino raggiunge l’apice della gloria e decade
Pietro Vannucci, detto Perugino, raggiunge il massimo splendore negli ultimi anni del Quattrocento, dopo vent’anni di crescita della sua reputazione. Resta in auge per pochi anni e presto, già nel 1503, inizia la parabola discendente. Nel 1493 ha aperto bottega a Firenze, dove sposa la bellissima Chiara Fancelli, che presterà il volto a molte Madonne e alla fatidica Maddalena, che starebbe per cambiare autore. Nella sua bottega c’è, in crescita prodigiosa, il giovane Raffaello, influenzato da Leonardo in quegli anni fecondi.
Il Perugino dipinge i suoi capolavori e trionfa, fino a quando, nel 1503, Isabella d’Este resta delusa dal dipinto allegorico che gli ha commissionato, una “Lotta tra Amore e Castità” per il suo studiolo nel castello di San Giorgio. Da allora sono critiche e dubbi sul valore delle sue opere: la reputazione del grande Pietro Vannucci ora è in calando.
Quella “nuova” Maddalena che aprirebbe un’epoca
Ora, sette secoli dopo, la rivista scientifica Open Science, Art and Science, sta per pubblicare uno studio di particolare impegno, dal titolo “La Maddalena di Raffaello ovvero quando l’allievo supera il Maestro”. Le conclusioni sono state anticipate in un incontro con la stampa a Pergola (Pesaro Urbino), per attribuire l’opera all’allievo, non al maestro. E per rivedere la storia del Rinascimento
Gli autori sono di primo piano. Maria Cecilia Visentin è docente pontificia specializzata in iconografia religiosa dell’Ordine dei Servi di Maria, Ordine che commissionò capolavori al Perugino. Poi Annalisa di Maria è tra i massimi esperti internazionali di Leonardo da Vinci e del Rinascimento italiano. La parte scientifica è a cura del prof. emerito Jean-Charles Pomerol della Sorbona, e Andrea da Montefeltro, ricercatore e scultore.
Antichi dubbi sulla Maddalena di Palazzo Pitti
Come si legge sulla scheda del dipinto, che si trova sul sito del polo museale fiorentino, l’attribuzione è stata discussa più volte. La Maddalena, che si trova nell’inventario di Palazzo Pitti dal 1641, è tata assegnata a Raffaello già nel 1691, poi a Franciabigio, Leonardo da Vinci e Jacopo Francia. Nel Novecento l’attribuzione a Perugino si è stabilizzata. E’ ben noto però che Chiara Fancelli è stata modella sia di Perugino che di Raffaello. E che la tecnica dello sfumato è tipicamente leonardesca, usata poi da Raffaello, mentre è tipico di Raffaello l’atteggiamento di Maddalena, con quello sguardo dolce, rivolto in basso verso destra, pensoso e attraente.
Il nuovo studio “La Maddalena di Raffaello” si avvale, inoltre, dell’analisi dei materiali, dato che un’opera pittorica ha una consistenza materiale nelle sostanze usate per la composizione. Risulta così l’applicazione della tecnica dello spolvero (antenata del ricalco), che Raffaello ha sempre usato e Perugino mai. E’ una tecnica usata per trasferire il disegno preparatorio.
Determinante la tecnica dello spolvero
Dapprima il pittore realizza il disegno preparatorio su una superficie che permette di fare cancellazioni e correzioni. Poi, quando la rappresentazione è definitiva, lo spolvero permette di replicare il disegno sulla superficie definitiva, con sufficiente precisione, riducendo di molto le correzioni. Oggi si userebbero diapositive o fotografie. Lo spolvero si praticava con materiali come carboncino, grafite o sanguigna, che si possono riconoscere in laboratorio.
E’ quel che ha fatto A.R.T. & Co, per conto dell’Università di Camerino con sede ad Ascoli Piceno. Nel dipinto sono stati rilevati comunque dei pentimenti dell’autore, che si è corretto. Pure i materiali sono tipici di Raffaello: un impasto di gesso e colla animale, strati a base di olio e biacca, pigmenti come il verde-grigio, ocre e terre, polvere di vetro e lacche usate per gli smalti, senza le quali non si riusciva a ottenere gli sfumati. Sono pigmenti che potevano andar bene per la tavolozza di Perugino. Gli studiosi concludono che il dipinto di Raffaello sarebbe servito come modello alle due Maddalene del Perugino, che così avrebbe copiato il proprio allievo.
La protesta di Sgarbi contro una teoria impossibile
Un altro elemento a favore dell’attribuzione a Raffaello è l’applicazione delle proporzioni matematiche, un metodo applicato dall’Urbinate, a differenza di Perugino. Il sottosegretario alla cultura e storico dell’arte Vittorio Sgarbi, non crede per niente alla scoperta di un nuovo Raffaello. Per lui la teoria degli studiosi, presentata a Pergola, è condizionata dal legittimo desiderio del proprietario dell’opera, che sarebbe felice di possedere un Raffaello e quindi vorrebbe un’autenticazione.
In realtà, per il sottosegretario, quel dipinto può essere solo una versione, forse autografa, di un prototipo, dello stesso Perugino, dell’opera conservata a Palazzo Pitti, di cui esiste un’altra copia in Galleria Borghese. E poi: Perugino ha usato lui pure la tecnica dello spolvero. Nel 1504, inoltre, Perugino e Raffaello erano in aperta competizione l’uno contro l’altro: impossibile per lo Sgarbi che il Perugino copi un Raffaello, che già aveva lasciato da anni la bottega del maestro. Avrà replicato semmai una propria opera, di cui bisognerebbe verificare l’autografia.
Solo i musei sono attendibili, non i privati
Sgarbi sottolinea il valore dell’attendibilità garantita dalle verifiche compiute dai musei. Al contrario, un dipinto di una collezione privata è accessibile solo a poche persone. Si tratterebbe dunque di un tentativo del privato di avere un’opera più autentica di quella del museo. Il sottosegretario ribadisce che quest’operazione è già stata tentata con l’autoritratto giovanile di Raffaello, poi le acque si sono calmate.
C’è davvero da perderci il sonno! Gli argomenti di Sgarbi, che l’anno scorso ha presentato il proprio nuovo libro “Lo sguardo di Raffaello”, meritano rispetto. Qualcuno vuole forse sradicare il Rinascimento dall’Italia? Non sembra però che sia così peregrina l’ipotesi di una zona grigia, in cui più stili e più tecniche coesistono, al punto da faticare a vedere un unico autore. Forse ha ragione Roland Barthes, con la sua teoria della “morte dell’autore”. Il che significa: rinunciando a un autore unico e certo e alle sue imperscrutabili intenzioni e firme indimostrabili, l’opera in questione libera le proprie potenzialità espressive. Sgarbi ha invece assolutamente ragione su un punto: non si può accettare che un’opera di quel valore sia di proprietà privata, accessibile solo a pochi. Dunque, che la possa valutare un museo.